La piazza è voce, libertà e dignità: perché scendere in piazza ha sempre senso
- Cristina Fazzi
- 23 set
- Tempo di lettura: 5 min
Leggo spesso, soprattutto sui social, commenti che dicono che sia inutile scendere in piazza per Gaza, perché tanto le manifestazioni non cambiano nulla, non fermano i carrarmati, non fanno cessare i massacri. Pur nel rispetto delle opinioni altrui, sinceramente non sono d’accordo e credo che il senso profondo degli scioperi e delle manifestazioni sia un altro. Nessuno crede davvero che un corteo in piazza possa da solo imporre la pace e il cessate il fuoco il giorno dopo. Non è questo lo scopo. Sarebbe bello, ma purtroppo non è così semplice.
Per me il senso di una manifestazione è un altro: è un grido collettivo che dice a chi governa e a tutta la società “noi non siamo d’accordo”, “noi non vogliamo tacere davanti all’ingiustizia”, “noi non accettiamo la linea politica del nostro Paese”. È un segno di dissenso generale, forte e visibile. È la prova che c’è una parte viva del Paese che proclama: “noi non ci riconosciamo in queste scelte”, “questi crimini non ci rappresentano”, “la nostra voce non può essere ignorata”.

La libertà di scegliere e di educare con l’esempio
Scendere in piazza significa esercitare la libertà. Non è una scelta comoda: significa rinunciare a un giorno di lavoro, a un giorno di stipendio. Per un’insegnante sarebbe più semplice restare in classe e invece decide di portare ragazzi e ragazze in piazza, insegnando loro che i diritti non si difendono con le parole soltanto, ma anche con la presenza, con la voce, con il corpo. Per i genitori sarebbe più facile andare a lavorare e mandare i figli a scuola, e invece scelgono la strada più difficile: quella di manifestare insieme ad altri.
Questa è la differenza tra chi resta a casa, magari criticando comodamente da dietro uno schermo, e chi sceglie la fatica, la rinuncia, il rischio di esporsi. Spesso chi non scende in piazza e attacca chi lo fa, in realtà, sta solo cercando di giustificare la propria scelta di restare a casa: magari per pigrizia, per indifferenza o perché è più facile criticare che ammettere di non avere il coraggio di esporsi. È come chi attacca per non dover difendere sé stesso.
E certo, anche scegliere di restare a casa è una forma di libertà e va rispettata. Ma almeno bisognerebbe evitare di criticare, e soprattutto di offendere, chi invece quella libertà sceglie di esercitarla in piazza, rinunciando al proprio tempo e al proprio lavoro per esprimere un dissenso civile e pacifico.
Il valore costituzionale dello sciopero
Trovo profondamente offensivo leggere che i portuali di Genova protestino solo perché non vogliono lavorare, o che gli scioperi dei trasporti vengano liquidati come iniziative fatte apposta per creare disagi ai cittadini. Non è così. Dire questo significa insultare chi esercita un diritto conquistato con fatica: il diritto di scioperare, sancito dall’Articolo 40 della Costituzione Italiana. Ricordo che la Costituzione stabilisce anche dei limiti all’esercizio di questo diritto, soprattutto nei servizi pubblici essenziali, proprio per bilanciare le legittime rivendicazioni dei lavoratori con il diritto degli utenti a usufruire di quei servizi.
Pertanto, ridurre uno sciopero a un “capriccio” o a un “dispetto” è un’offesa non solo a chi rinuncia a una giornata di paga per dare forza a una battaglia collettiva, ma alla libertà stessa che la nostra Costituzione riconosce come fondamento della democrazia. Significa offendere non solo i lavoratori, ma la libertà stessa. Sminuire il significato dello sciopero è cancellare il suo senso più profondo: quello di dare voce al dissenso, di rendere visibile un’ingiustizia, di affermare che la democrazia vive anche e soprattutto nel coraggio di fermarsi e dire “no”.
Lo sciopero non è mai violenza
Naturalmente lo sciopero non è mai violenza. MAI. Come si è visto nelle manifestazioni pro-Palestina in qualche grande città italiana, alcuni teppisti hanno cercato di offuscare il vero significato dello sciopero e lo spirito delle centinaia di migliaia di persone (cifre riferite da numerose fonti tra cui RaiNews) che hanno partecipato pacificamente, con famiglie, bambini, insegnanti e studenti.
Lo sciopero è un atto di libertà, non di vandalismo: chi compie azioni violente non rappresenta le conquiste del diritto allo sciopero, ma le tradisce. E non va dimenticato che gli episodi di vandalismo vengono spesso amplificati e manipolati per divenire un facile strumento nelle mani di chi è contrario agli scioperi stessi. Perché? Per screditarne il valore e distogliere l’attenzione dal messaggio pacifico e collettivo, veicolato dalla maggior parte dei partecipanti che scelgono la non violenza.

Libertà è partecipazione
Perché la libertà non è un bene astratto, “la libertà è partecipazione”, diceva Giorgio Gaber. La vera libertà non è limitarsi a delegare ad altri, ma prendere parte, metterci la faccia, esserci. Partecipare significa prendersi la responsabilità del proprio tempo e delle proprie azioni, esporsi, schierarsi, dire: “io ci sono”.
E non dimentichiamo il valore educativo: ogni manifestazione, ogni sciopero, insegna alle generazioni future che non dobbiamo mai smettere di alzare la testa e che non possiamo ignorare i bisogni degli altri solo perché non abbiamo una soluzione immediata. Manifestare significa anche sentire che la sofferenza di un popolo lontano riguarda pure noi, come esseri umani, e che l’ingiustizia subita da altri non può lasciarci indifferenti. È un atto che insegna solidarietà, condivisione, senso civico.
Il ruolo dell’informazione e la solidarietà internazionale
Chi dice che queste manifestazioni siano solo strumentalizzazioni politiche o che non ci si mobiliti con la stessa forza per altre guerre e genocidi in Africa o in Asia, dimentica un fatto fondamentale: il ruolo dell’informazione. Gaza è vicina, le immagini arrivano ogni giorno, sono drammatiche, immediate, impossibili da ignorare. Inoltre, esistono comunità palestinesi e arabe, radicate in Europa, che rendono la realtà di Gaza vicina e tangibile: vivono accanto a noi, condividono le nostre giornate, fanno parte della nostra stessa comunità. Altri conflitti, come in Congo o in Tigray, sono meno visibili, più lontani, mancano di copertura mediatica, mancano di immagini che colpiscano la coscienza pubblica.
Non significa che valgano di meno, o che l’opinione pubblica sia indifferente a quanto accade in Africa o in Asia… È chiaro che l’opinione pubblica è guidata da ciò che vede, da ciò che conosce, da ciò che i media scelgono di mostrare. Ed è proprio per questo che è fondamentale che l’informazione sia libera, pluralista e non monopolio dei governi o di pochi grandi gruppi di potere.
Perché solo un’informazione indipendente può dare voce a tutte le tragedie, senza distinzioni di convenienza politica. Ed è proprio per questo che i giornalisti possono essere annoverati tra gli eroi dei nostri tempi: rischiano – e spesso perdono – la vita pur di raccontarci cosa accade nel mondo. Nel solo 2024, secondo la International Federation of Journalists (IFJ), sono stati uccisi 122 giornalisti e operatori dei media in diverse aree di conflitto. E dall’inizio della tragedia di Gaza (ottobre 2023) fino a oggi, l’IFJ segnala che almeno 245 giornalisti e media workers hanno perso la vita proprio in Palestina, mentre cercavano di testimoniare la realtà del massacro in atto.

Perché scendere in piazza ha sempre senso
Per questo ritengo che, ancora oggi, scendere in piazza abbia senso. Non perché il giorno dopo finirà la violenza o perché il mondo cambierà in 24 ore, ma perché ogni manifestazione è un atto di dignità e di libertà, un segno concreto che rifiuta il silenzio e l’indifferenza. È il modo in cui una società democratica dice di sé stessa: “non siamo indifferenti”, “non ci rassegniamo”, “non smetteremo di farci sentire”. È la dimostrazione che la libertà è scegliere di esserci, di condividere, di partecipare.
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