Migranti, missionari di speranza: aiutiamoci come fratelli
- Cristina Fazzi

- 6 ott
- Tempo di lettura: 4 min
Aggiornamento: 6 ott
Nel mare di informazioni di questi giorni, tra Gaza, Flotilla, manifestazioni in piazza e polemiche, quasi per caso mi accorgo che ieri, 5 ottobre, la Chiesa celebrava la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato. Il tema del 2025 è: “Migranti, missionari di speranza”.
Credo che non ci sia tema più giusto. Perché chi parte, chi scappa, chi attraversa il mare o il deserto, non porta solo il suo dolore: porta speranza.
Seguo le vicende di questi giorni e mi torna in mente la frase che da anni ci sentiamo ripetere: “aiutiamoli a casa loro”. Detta così, decontestualizzata, sembra una frase buona, responsabile, quasi compassionevole. Ma nei fatti è solo una scusa elegante per lavarsi la coscienza.
Perché, se questa frase fosse pronunciata in modo sincero e solidale, non si taglierebbero i fondi alla cooperazione internazionale, non verrebbero più rifornite le armi che distruggono i Paesi da cui i migranti scappano, non si promuoverebbero economie e politiche di sfruttamento che mettono in ginocchio chi, in quei Paesi, ci vive. E allora, mi domando: di quale aiuto parliamo?
E intanto, tra un “aiutiamoli a casa loro” e un altro, i migranti vengono rifiutati, giudicati, insultati, persino deportati. Sempre che non vengano ingoiati dal mare. Vengono offesi, rappresentati come criminali nei manifesti elettorali, strumentalizzati per alimentare la paura e l’odio verso il diverso. Si raccontano fiumi di menzogne, ma nessuno parla mai del motivo per cui scappano. Nessuno parla della fame, della guerra, della disperazione, delle ingiustizie che spesso noi stessi, Paesi “civili”, abbiamo contribuito a creare e alimentare. E così chi fugge per sopravvivere diventa “un problema”. E nel mare che un tempo univa le civiltà, oggi affoga la nostra coscienza.
Da alcuni mesi, però, sta succedendo qualcosa di ancora più assurdo. Non solo respingiamo i migranti che scappano dalle guerre, ma siamo arrivati al punto di chiudere le vittime di un’azione di sterminio in una striscia di terra, trasformata in un enorme ghetto. Quella gente non può scappare per cercare rifugio né in mare né in terra. E non può neanche essere aiutata “a casa sua”.
Quando qualcuno decide davvero di aiutarli “a casa loro”, e lo fa per davvero, non a parole, portando cibo, medicine, sostegno, volontari, come fanno quelli della Flotilla per Gaza, allora all’improvviso chi li aiuta “a casa loro” diventa un pericoloso irresponsabile. Uno “in cerca di fama e notorietà” o che “vuole farsi la crociera” e uno che "se la va a cercare” se viene arrestato, umiliato, torturato. Persone disarmate, pacifiche, volontari, medici, infermieri, trattati come "nemici" solo perché osano salvare vite “a casa loro”, dove ormai di case non ce ne sono più, e neanche ospedali, e praticamente fra un po’ non ci saranno più neanche persone.
Salviamo i migranti in mare? Non va bene. Soccorriamo chi è costretto a morire a casa sua? Non va bene. Ma allora, in che mondo ci è consentito aiutare il prossimo che soffre?
In che mondo viviamo, se aiutare diventa un crimine e chi porta soccorso viene trattato come una minaccia? Viviamo in un mondo in cui i muri si alzano per chi cerca rifugio, ma si abbassano per il commercio di armi. I porti si chiudono ai migranti, ma si aprono per gli affari che alimentano le guerre e violano i diritti umani. È questo il doppio standard dell’Occidente: difendere la vita solo quando conviene, solo quando non costa nulla, solo quando non disturba i piani politici ed economici di chi, sulle disgrazie della gente, costruisce i propri successi. E intanto, chi cerca di fare la cosa giusta, chi parte con una barca per portare aiuti, viene umiliato, arrestato, insultato, denigrato.
A volte leggo commenti crudeli sotto le notizie dei barconi di migranti che affondano nel nostro bel Mediterraneo. Per curiosità, vado a vedere i profili social di chi scrive frasi come: “meglio così, qualche criminale in meno” o “peggio per loro, potevano starsene a casa loro invece di venire qui a delinquere”. Con grande stupore, trovo nei loro profili crocifissi, santini, frasi “pro vita”, messaggi d’amore e di pace. E allora mi chiedo: come si fa a essere “pro vita” e non vedere la vita nei migranti che muoiono in mare? Come si fa a pretendere il Crocifisso in aula e poi dire delle barche della Flotilla: “speriamo che le affondino tutte”, come se sopra non ci fossero esseri umani e aiuti umanitari?
Come si può adorare un Crocifisso e restare indifferenti di fronte a chi viene crocifisso ogni giorno dall’indifferenza, dal mare, dalla fame? Un crocifisso è solo un pezzo di legno. Siamo noi, con le nostre azioni e con la nostra carità, che lo trasformiamo nel simbolo dell’amore cristiano, in quel Gesù Cristo che, crocifisso, apriva le braccia per accogliere tutti.
San Francesco d’Assisi diceva: “Predicate il Vangelo, e se è proprio necessario, usate anche le parole”. E mi sembra vero. Le nostre azioni predicano molto più delle nostre parole.
Essere cristiano, per me, significa stare dalla parte della vita sempre, tutta la vita, ogni vita: quella che cresce nel grembo, quella del bambino che scappa e viene ucciso da un cecchino, quella della gente che viene lasciata morire di fame o sotto i bombardamenti, quella dei migranti che muoiono nel nostro amato Mediterraneo dopo aver vissuto in un inferno da cui hanno cercato di scappare. Anche la vita dei volontari, pacifici e disarmati, che portano aiuti umanitari a popoli stremati dalla violenza e dall’odio.
Credo che dovremmo cambiare la narrativa. Non è “aiutiamoli a casa loro”, e non è neanche “aiutiamoli a casa nostra”. È aiutiamoci come fratelli, ovunque ci sia sofferenza. La dignità umana non finisce a una frontiera, non è questione di passaporti o religioni. E finché continueremo a dire “noi” e “loro”, non ci sarà mai pace. Non per chi parte, ma neanche per chi resta.
Tornando al tema scelto per il 2025, “Migranti, missionari di speranza”, mi sembra che queste parole esprimano un concetto molto importante: chi parte, chi scappa, chi attraversa il mare o il deserto, non porta solo il suo dolore, porta speranza. Speranza di essere accolto, speranza di essere amato, speranza di trovare le braccia aperte di cristiani, di esseri umani, pronti ad accogliere e non a giudicare. È la stessa speranza che tiene in vita l’umanità.
Forse allora dovremmo ascoltarli, questi missionari di speranza, invece di respingerli. Perché, in fondo, sono loro a ricordarci chi siamo davvero: esseri umani, fatti per amare l’altro, per camminare insieme, per accogliere e non per respingere, per condividere e non per dividere.







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